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| venerdì, agosto 29, 2003
Teheran ha accusato due donne dell’omicidio di Zahra Kazemi. Ma la tesi non regge. Da Ottawa si vuole chiarezza e una risoluzione per I diritti umani in Iran FOTOREPORTER UCCISA: IL CANADA CHIEDE L’INTERVENTO DELL’ONU E MINACCIA DI NUOVO SANZIONI ECONOMICHE Il ministro degli Esteri Graham: il procuratore Mortazavi potrebbe essere implicato nell’omicidio della fotoreporter di Montreal Di Alberto Lunati Non bastano al Canada quei pochi, scarni passi formali che Teheran afferma di aver percorso per fare chiarezza sulla morte di Zahra Kazemi, la fotoreporter di Montreal uccisa in circostanze misteriose e per il cui omicidio sono state incriminate due donne, un’infermiera ed un’assistente sociale, che, sempre a detta dell’Iran, avrebbero preso entrambe parte agli interrogatori “punitivi” della vittima. Non bastano davvero. E ieri il ministro degli Esteri canadese Bill Graham ha minacciato per la seconda volta - dopo che tutte le richieste del governo di Ottawa sono state puntualmente disattese - di abbandonare la diplomazia in favore del pugno di ferro. A costo di incrinare definitivamente I rapporti diplomatici tra I due Paesi. Graham, che si trovava a Denver (dove era in corso un incontro del Norad , l’organizzazione responsabile dell’organizzazione del comando spaziale degli Stati Uniti e del Canda) dove gli sono stati comunicati I risultati – poco credibili - dell’indagine e il secco rifiuto da parte di Teheran di condividere tutti gli aspetti dell’inchiesta, questa volta non ha usato mezzi toni. Il ministro canadese ha infatti chiesto – parlando in teleconferenza - l’intervento diretto dell’Onu sulla vicenda e ha nuovamente minacciato, questa volta con un ultimatum di sette giorni, di colpire l’Iran attraverso una serie di sanzioni commerciali. Non solo, per la prima volta in una vicissitudine dai contorni sempre più sfumati, il Canada, per bocca del ministro Graham, ha formulato accuse ben precise. E le ha dirette contro il procuratore Saed Mortazavi (rimosso dal governo iraniano subito dopo la morte di Zahra) che, nel corso di un incontro con un gruppo di diplomatici canadesi svoltosi lo scorso mercoled? a Teheran, ha ammesso a denti stretti che «potrebbe essere coinvolto nella morte della Kazemi», «Certo – ha diplomaticamente detto Graham – non abbiamo ancora le prove certe di un suo coinvolgimento nell’omicidio, non almeno diverse da quelle rese finora pubbliche da Teheran. Ma ogni rapporto con il procuratore Mortazavi viene condotto con l’eventualità che in qualche modo sia responsabile della morte della nostra fotoreporter». Scricchiola, infatti, la tesi che siano state solo le due donne, entrambe dipendenti del ministero dell’Intelligence, ad infierire a morte sulla Kazemi senza la presenza – e in un primo momento da Teheran si era appunto parlato di quella di Mortazavi – di un superiore agli interrogatori. Debole anche se laconicamente infarcita da una “semi premeditazione in un omicidio di secondo grado”, come le autorità iraniane hanno definito il delitto nell’atto di incriminazione delle due donne. «? quantomeno strano – ha ribadito Graham - che due agenti di livello più basso possano essere responsabili della morte in mancanza di ordini di loro superiori. Comunque – ha aggiunto il ministro canadese, è positivo che vadano a processo: qualcuno dovrà pur rivolgere loro delle domande alle quali, in un modo o nell’altro, le due incriminate dovranno rispondere» Dal governo di Ottawa, poi, l’appello è fermo quanto chiaro. E chiama direttamente in causa l’assemblea del Palazzo di vetro: alla Commissione diritti umani delle Nazioni Unite il Canada ha chiesto infatti di prendere una posizione sul caso Kazemi e starebbe anche pensando di presentare all’Assemblea Generale dell’Onu una risoluzione sulla difesa dei diritti umani in Iran. Risoluzione che avrebbe già trovato il consenso di alcuni Paesi europei. Intanto, la città di Montreal continua a stringersi intorno al figlio di Zahra, Hachemi, il quale sin dall’inizio ha affermato di non credere «alle bugie di Teheran» in merito alla morte della madre. In questi giorni nella città del Quebec è stata infatti allestita una mostra con gli scatti – la maggior parte dei quail fatti in paesi musulmani – della Kazemi. Zhara, 54 anni, fotoreporte freelance per un settimanale di Montreal, fu arrestata mentre scattava fotografie di fronte al carcere di Evin, alla periferia di Teheran, il 23 di giugno. Tre giorni dopo, il suo trasferimento all’ospedale Baghiatollah Azam, gestito dai guardiani della Rivoluzione. L’11 di luglio, il referto medico stilato dai sanitari di quello stesso ospedale giustificava la sua morte come causata da “emoraggia celebrale”. Un’emoraggia cerebrale che, dopo le proteste del Canada e della comunità internazionaale venne riconosciuta da Teheran come causata dalle percosse mortali che la Kazemi aveva subito dopo l’arresto in carcere. L’Iran, disattendendo le richieste del Canada, ha seppellito la salma della Kazemi nella sua terra e si è finora opposto a qualunque richiesta – formulata anche da Amnesty International – di lasciare a chiunque altro la possibilità di condurre un’indagine autonoma sulla vicenda. Negli ultimi giorni era stata annunciata l’apertura di un’inchiesta che l’Iran avrebbe dovuto consegnare – come la salma della fotoreporter – anche al Canada. Ma nessuna di queste promesse è stata mai mantenuta. Il corpo della Kazemi riposa in un cimitero in un paesino a sud di Teheran e il fascicolo dell’indagine, come hanno fatto sapere due giorni fa dalla capitale iraniana, giace tra I faldoni di quei segreti di Stato nei quail nessuno ha il diritto di mettere il naso, visto che I Capri espiatori potrebbero anche già essere stati trovati.
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